Dentro e fuori, lessico di sopravvivenza




Un dì s'io non andrò sempre fuggendo mi vedrai seduta con il Mac sulle ginocchia a digitare parole in libertà.  Mi perdoni il Foscolo per averlo scomodato impropriamente nell'incipit, ma calza a pennello. Pur non condividendone la sorte di esule e senza dover parlare con alcun cenere muto -condizione privilegiata, di questi tempi- credo di provare, come il poeta neoclassico, una sorta di bisogno di solitudine del quale potermi lamentare e financo compiacere. Ho reso l'idea? Rifuggire l'umanità recepita come ostile e gloriarsi dell'isolamento in una torre che però, nel mio caso, d'avorio non è. Essa è stata edificata abusivamente nei gangli cerebrali con materiali di scarto e sebbene sia instabile, senza fondamenta, si piega alle intemperie della vita e si àncora tenace alle insicurezze. 

Vorrei mostrarmi fiera al destino indossando un sontuoso abito antico; spensierata e sognante, ammiccare con sicurezza all'indirizzo di un obiettivo avido di scatti. L'esperienza me lo consentirebbe, credo. Anni di studio e di lavoro, vicende di vita, famiglia e relazioni, alti e bassi...orsù ascendi alla balconata riservata, godi dello spettacolo dell'esistenza e applaudi ai successi. Immagino che così debba essere. 

Ed invece amo il tepore rassicurante della riservatezza; apprezzo la delicatezza del timido e anelo al conforto della lettura. Uno splendido isolamento che mi ha permesso si incontrare nuovamente Natalia Ginzburg e il suo Lessico famigliare; lettura imposta un tempo, ora cercata e assorbita.
Non procedo alla sinossi - che è nota e facilmente reperibile - ma sommessamente sottolineo uno dei tanti ritratti dipinti con mano delicata ma ferma. Un uomo, un collega, un amico schivo dalla vivace ironia "che era forse tra le cose più belle che aveva" anche se non fu mai in grado di riportarla nelle cose che amava di più: le donne e i libri. Cesare Pavese era amico sincero di Natalia, una presenza costante mai imposta; non amava l'imprevisto e il male di vivere lo portò, una notte d'estate, a pianificare il suo finale. 

Lessico famigliare è un'autobiografia anomala, l'autrice parla poco di sé a vantaggio dei personaggi che la circondano. E sono tanti e per noi illustri. E' piacevole scoprirli nella loro dimensione quotidiana nel ventennio che segna drammaticamente la nostra storia contemporanea. Incontriamo Vittorio Foa, Felice Balbo, Giulio Einaudi, Camillo e Adriano Olivetti, Anna Kuliscioff, Filippo Turati e ovviamente Leone, il marito, la cui morte, provocata dalle torture inflitte dai fascisti nel carcere di Regina Coeli, viene rievocata con poche parole di dolore. 

Un dolore che risuona nitido e feroce in una poesia pubblicata sulla rivista Mercurio nel dicembre del 1944

Memoria

Gli uomini vanno e vengono per le strade della città.

Comprano cibo e giornali, muovono a imprese diverse.
Hanno roseo il viso, le labbra vivide e piene.
Sollevasti il lenzuolo per guardare il suo viso,
ti chinasti a baciarlo con un gesto consueto.
Ma era l’ultima volta. Era il viso consueto,
solo un poco più stanco. E il vestito era quello di sempre.

E le scarpe eran quelle di sempre. E le mani erano quelle
che spezzavano il pane e versavano il vino.
Oggi ancora nel tempo che passa sollevi il lenzuolo
a guardare il suo viso per l’ultima volta.
Se cammini per strada, nessuno ti è accanto,
se hai paura, nessuno ti prende la mano.

E non è tua la strada, non è tua la città.
Non è tua la città illuminata: la città illuminata è degli altri,
degli uomini che vanno e vengono comprando cibi e giornali.
Puoi affacciarti un poco alla quieta finestra,
e guardare in silenzio il giardino nel buio.
Allora quando piangevi c’era la sua voce serena;
e allora quando ridevi c’era il suo riso sommesso.

Ma il cancello che a sera s’apriva resterà chiuso per sempre;
e deserta è la tua giovinezza, spento il fuoco, vuota la casa.

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